A Belprato, e “castagne sbucciate e lesse” per i defunti, nella notte dei Santi

Una tradizione nella Val Pertica

 

Il piccolo borgo di Belprato, nel periodo sette/ottocentesco (allora Prato), era considerato, in Valle Sabbia, un rinomato centro di produzione delle castagne di qualità, “quelle di Prato”.

La produzione, per quelle circa quaranta famiglie, si aggirava sui 1500 quintali annui; ogni famiglia vi contribuiva con un minimo di 30 fino ad un massimo di 100 quintali.

La castagna era il frutto per eccellenza degli autunni colorati ed odorosi, sia delle umane crescite individuali che parimenti dell’ingrasso animale, oltre che tradizionale offerta agli antenati nel culto dei Morti alla vigilia di Ognissanti.

La tradizione

La sera, davanti agli sgranati occhi di bimbi numerosi e in scala, si scodellavano sulla rustica tavola, per l’”assaggio/offerta” ai defunti, morbide e fumanti castagne cotte.
I componenti della famiglia trattenevano la fame, perché il primo assaggio sarebbe obbligatoriamente stato per gli spiriti dei trapassati, durante la lunga notte.

© Lorenzo Gabrieli

All’indomani, quando la madre aveva scaltramente e nascostamente tolto una parte del tutto per far credere ai piccoli dell’avvenuta presenza dei soprannaturali ospiti, che avevano gradito il cerimoniale cibo, con la titubanza di un ritegno infantile, frutto di costruite paure, ma, anche e di contrapposto, con la incontenibile spinta della fame, consumavano la restante parte della rituale offerta.

Questa socializzazione simbolica del fatto nutritivo, correlata col senso arcaico della continuità biologica per la presenza degli antenati, non si poteva intendere compiutamente se non rapportandola a tutto il complesso e impressionante cerimoniale della morte che veniva tramandato sia dalla primitiva cultura contadina, ma anche dagli uomini di chiesa istituzionalmente propensi a una dottrina profondamente impostata alla quotidiana presenza ultraterrena dei trapassati.

Tale costante presenza dell’aldilà era vista in funzione di un meritato premio per i buoni e di un inevitabile castigo per i cattivi, in una inspiegabile dualistica contrapposizione per una società semplice, come quella contadina di un tempo, dove il fronte era unico, omologo a tutti, di sofferenze e lavoro.

Lì, l’eccesso di formalismo di una religione, comunque sentita e vissuta, diveniva elemento dirimente di vita; ed il prete diveniva il mediatore per eccellenza di tutto un costrutto teologico-dottrinale che alle povere teste di contadini affaticati e denutriti sfuggiva.

Ma era lui l’interprete per eccellenza e di fiducia per la trasformazione di una vita di fatiche in un premio eterno!
E non potevamo i valligiani, contadini e artigiani, non credere a quanto lui, nella sua ieratica prestanza, nel suo paramentale vestire, da soggezione, con l’eroico furore delle sue novissime disquisizioni, andava predicando.
Per fortuna, non sempre di inferno, di colpe e di pene, di punizioni e di dolori.

E, in quei borghi montani e vallivi, di sottane nere, dai trentacinque bottoni, che continuamente li richiamava, con la sua presenza, ve ne era solitamente una, da accettare sempre e da respingere mai, per quell’implicito ragionamento di concreta speranza nell’”al di là”, quando l’“al di qua” era sconsolatamente gramo.

Giuseppe Biati

Fonte
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